Il Dandy


La rossa del Dandy
Il Dandy


   Pareva che pure il cielo ce l'avesse con me. 
S'era fatto d'un colore che somigliava alla polvere, e la calura era così pressante che solo l'afa di metà agosto sapeva far di peggio.
   Saranno state sì e no le tre del pomeriggio. Forse. Per non attendere l’apertura della Standa davanti al marciapiede come un fesso, decisi di fare un giro in Piazza del Popolo, godermi lo spettacolo dei piccioni e lasciare che le lancette scorressero un poco oziose.

   A quell'ora il via vai di certo non mancava. Il comune, il bar Poeta e la biblioteca pubblica erano a due passi. Potevi trovarci di tutto. Impiegati di ritorno dalla pausa pranzo che rientravano all'ovile, studenti delle superiori che avevano segato a scuola e che dopo aver trascorso l'intera mattinata ai Giardinetti trottavano spediti verso le corriere in corsa, e gli universitari che, per darsi un tono, filavano verso la biblioteca cicalando e con l'immancabile sigaretta piantata tra le labbra. Ce n'era uno, un roscio riccio sulla ventina secco come un chiodo, che come che gli capitavo a tiro, mi interpellava sui massimi sistemi: <<Oh, bella capo... Ce l'hai 'na sullazza?>>, ed immancabile era la risposta che puntualmente sempre nuova gli fornivo: <<Eh, no... Non fumo. Scusa. Grazie>>, non capii mai il perché mi scusassi ringraziando, come se l'astenersi dal vizio fosse un qualcosa di cui vergognarsi. Non lo so, ma a quel tempo, mi veniva naturale così. Comunque, per la cronaca, quella mia risposta un po' impacciata resse fino al 1991, perché poi, l'anno dopo, mi sporcai la fedina col tabacco pure io.
   Buttavo un occhio al polso ogni cinque minuti, che a me parevano almeno venti: avete presente quando non vedete l'ora di fare una cosa e il tempo che vi separa dal farla non passa mai? Ecco, allora avete capito com'è che mi sentivo. Dovevo precipitarmi al secondo piano della Standa per accaparrarmi il Black Album dei Metallica. Uno stato di necessità. Sono certo che tra voi ce ne sarà almeno uno così folle da capirmi. Altrimenti, fatelo per fede.
   Con lo sguardo avevo preso a scortare il volto d'una signora che indossava una lunga veste nera, che per la stagione m'appariva fin troppo pesante. Ricordo che di primo acchito pensai che fosse un vedova. Forse perché al paese di mia mamma le donne rimaste senza marito vestivano tutte così (un voto ch'era per tutta la vita) e parevano tutte vecchie, pure quelle che anagraficamente non lo erano. <<Una volta era così>>, mi ripeteva mia mamma ogni qualvolta tiravo fuori dal cassettone le sue vecchie foto di Castelforte. <<Perché portare a casa la pagnotta era più difficile>>, diceva. <<I lavori, quando c'erano, stavano sotto al sole, e così la pelle invecchiava prima e si faceva rugosa già a quarant'anni. E quando non ci pensava il sole, ci pensavano i dolori.>> 
   Le gote di quella donna s'andavano facendo sempre più paonazze a mano a mano che sollevava delle buste rigonfie dal marciapiede e le calcava nel fondo d'un carrettino già strabordante, e sgangherato; e che poi, a dispetto della chioma incanutita dai tanti lustri riprendeva a trascinarlo, indefessa, verso quel pullman numero 95 arancione, or ora alla fermata, ai margini della piazza. 
   Tutto questo, accadeva al sole. Sì, al sole, perché all’ombra, invece, seduto su una rampa di gradini, c’ero io. Tra le gambe l’inseparabile Invicta Jolly Top e in mano l’uniposca per imbrattare l’ultimo angolo dello zaino stranamente ancora vergine. Vergine, questo è un aggettivo che tornerà in pompa magna, ma più tardi.
    Ecco che una Bentley Azure color panna s’avvicina lenta alla fila dei piloni di cemento che delimitano la zona pedonale centrale. Il motore è in folle, ma all'improvviso il probabile riccone alla guida affonda per ben tre volte sul gas. Senza pudore. Chiunque l'avesse fatto, fosse pure con una Mercedes coupé, avrei pensato: "che coglione!", ma a una Bentley, oh sì, a un Bentley perdoneresti di tutto. Il ruggito dei seimila centimetri cubici mi graffiò entrambi i timpani mentre tentavo di visualizzare nella mente l’ago dei giri-motore svettare oltre la soglia dei cinquemila. Se la Bentley fosse stata un animale l'avrei immaginata essere una tigre. Senza indugi.
   Silenzio: la tigre è in pace, sazia, e l’hanno sentita tutti.
   I miei occhi gli sono addosso. Non la mollano.
   La portiera del conducente si spalanca in due tempi. “E’ il turno degli umani”, penso.
   Un uomo sulla sessantina con l'addome un poco prominente, sbucò fuori dapprima con la testa, come per saggiare l'aria che tirava, dunque si proiettò con l'intera figura fuori dall'abitacolo. Elegante nel suo cappotto cammello, con un baio di baffoni folti e calcato sulla testa un copricapo a tesa larga in pendant col cappotto. Sollevò i pugni e si stiracchiò sbadigliando.
   Adesso, lo vedo chinarsi e tornare dentro con mezzo busto. Tormenta una leva e il sedile in pelle ruota indolente verso il volante rivestito di cuoio nero fino alle razze e, sui sampietrini, fanno comparsa, una dopo l’altra, due paia di gambe, chilometriche e per quel che ne potevo capire io, perfette.
   Richiusa la portiera, le due donne (che al più lambivano la venticinquina), si sistemarono una alla destra e l’altra alla sinistra dell’uomo. Lo prendono sottobraccio e s’avviano verso il centro della piazza.
   La rossa dalla chioma riccia e vaporosa abbandona il braccio del suo attempato cavaliere e scatta solitaria incontro alla compagine di piccioni lanciando loro qualcosa che sembrano assai gradire. Fece guizzare le braccia che presero ad agitarsi a mezz'aria, svelando l'ombelico, nel gesto di voler agguantare il cielo e tutto quello che poteva riservarle. Gli occhi, forse un po' troppo imbellettati per i miei gusti, s'erano giust'appena chiusi, per il tempo utile a compiere due giri su se stessa, con la naturalezza e lo charme d'una diva degli anni '60. Dalla mia prospettiva l'
avevo già relegata allo stato di dea con tanto di tacco 12 e pantaloncini color canna di fucile, inarrivabileda guardare sì, ma con le dovute precauzioni.
   Eppure, il tizio col cappotto cammello, c’era arrivato, eccome. Già il fatto che indossasse quel cappottone col caldo che tirava era quantomeno una stranezza, tuttavia, mi resi conto presto ch'era solo la prima di quel personaggio e che il peggio doveva ancora avvenire. Ma io avevo solo 17 anni, e pure incompiuti. Che ne potevo discernere io di siffatte dinamiche.
   La mora dai capelli lunghi raggiunse l'amica a piccole e sensuali falcate che la gonnellina a fiori, ondeggiando a metà coscia, poneva in risalto. A coprirle i seni v'era una camicetta di seta bianca mezza sbottonata che a malapena li teneva a bada. Una fascia floreale abbinata alla gonna spuntava sulla testa.
   Mi venne il sospetto che l'uomo si fosse accorto che quello spettacolo m'era gradito. Sembrò fare una smorfia che interpretai di soddisfazione, richiamò a sé le ragazze e, flemmatico, depositò un bacio sulle labbra di ognuna di loro, prestando cura a che il tutto fosse nella mia più pregevole prospettiva.
   Le abbandonò allungando le braccia facendo scivolare le loro mani lungo le sue palme fino a liberargliele con l'ultimo tocco dei polpastrelli, come se le stesse invitando ad esibirsi su di un palcoscenico. E fu così che presero a danzare sotto i raggi del sole
 e al cospetto d'un venticello umido, che faceva sì che la stoffa degli indumenti s'appiccicasse alle forme più pronunciate, mentre lui s'avviava verso i gradini: verso di me.
   Me lo ritrovai seduto a una spanna dal mio culo. Portava anelli su entrambe le mani. Una catenina d’oro massiccio gli adornava il collo abbronzato, perdendosi poi tra il petto villoso e la camicia azzurra  semisbottonata.
   Gli fissai le scarpe. Le classiche anni '20 da gangster, bianche e nere. Costose, e quasi certamente fatte a mano. Era la seconda volta che le vedevo. La prima, ne Il Padrino di Coppola. Le indossava Sonny,  il fratello maggiore di Michael Corleone, nella scena in cui prende a calci e morsi il cognato traditore.
   Di tanto in tanto lo fulminavo con dei flash di sottecchi. Forse però una volta di troppo, e fu così che i nostri sguardi si incrociarono: il mio era uno di quelli che tentava di non sconfinare nell'invandenza, il suo, invece, lo giudicai spavaldo, e sornione, ma quest'ultimo solo fino a quando non si decise ad aprire il becco: perché era limpido quanto una sorgente d'alta montagna che non vedesse l'ora d'aprire il becco.
   Compie il gesto di avvicinarsi, ma è solo l’appiglio per iniziare una conversazione, il sedere rimane pressoché al suo posto. Anche perché se si fosse avvicinato un altro po' mi sarebbe montano addosso.
   <<A moré, té piàceno?>>, mi disse in romano con voce rauca, esattamente la voce che osservando la sua figura immaginavo gli si addicesse.
   Avevo capito perfettamente la domanda, ma mi sentivo imbarazzato e feci finta di non capire.
   <<In che senso?>>, ma lui non se ne curò e proseguì diritto.
   <<Te le voi comprà?>>
   Abbassai lo sguardo in un gesto di stizza. Era rozzo, volgarmente ricco, ma mi venne egualmente spontaneo dargli del lei, per reverenza anagrafica, suppongo.
   <<Ma che dice…>>, gli propino, sfoggiando un ghigno che palesava disagio.
   Il tizio tirò fuori dalla tasca un fermaglio d'oro deformato dal mucchio di banconote che tratteneva, e ne sfilò una da centomila lire.
   <<A moré, le donne vere non so' come le donne dell’artri, non so’ pé tutti, si le voi, comincia a mette da parte i sordi… Tiè!>>, avvolse su se stesso il centone e me lo infilò nella tasca davanti del giubbetto di jeans, di fianco all’uniposca.
   Ero ancora più confuso di prima, e poi non mi piaceva quando mi chiamavano "moro" o "moretto". Il primo istinto fu quello di rifiutare sonoramente, ma fui raggiunto da due buffetti sulla guancia con il dorso della mano che mi lasciarono interdetto. 
   Agitò un braccio e indirizzò un gesto alla ragazza coi capelli rossi.
   <<Vedi moré, le donne so’ nate pé 
rompe i cojoni, je vai bène quanno pare a loro, te strèsséno e poi te dichéno che so' mestruate e che devi da capì. Alla fine sei sempre te quello che nun capisce, hai capito? C’è sempre qualcosa che nun je va bène…>>
   La dea rossa ci si paventò davanti annunciata da un sorriso così amabile che alcun vaccino, da oggi a mille anni, ne avrebbe mai potuto arrestare la contagiosità. Ed io fui il primo degli infetti, tant'è che oltre a sorriderle con le labbra, invitai al banchetto tutta la faccia.
   <<Stai a véde, moré? Che te pare una come l’artre, questa?>>.
Nonostante si sia all’ombra, le guance, me le sentivo in fiamme.  Mi scoprii fin troppo ammaliato da quel volto, da quegli zigomi aggraziati e da quella bocca. 
Leggere efelidi le contornavano il nasino alla francese dissolvendosi sulle gote, occhioni del colore del mare di Sperlonga ammiccavano luminosi e teneri. Linee conturbanti delineavano le labbra scarlatte, e tumide.
   Eppure, più di qualcosa mi sfuggiva: come poteva una giovane donna siffatta accompagnarsi ad un uomo così rozzo e volgare?
   L’uomo fece leva sulle braccia e si levò in piedi. Afferrò il polso della ragazza e, con poca cura, strattonandola, la indusse a fare un giro completo su stessa.
   <<A moré, hai visto che chiappe, che zinne, che stacco de coscia… E quanno le trovi tutte ‘ste cose su una sola! Femmine così il mestruo nun ce l’hanno mai. Quanno la matina mé arzo dar tre piazze e mé le ritrovo là, profumate, me le rimìro cor culo ar vento e me dico “cazzo, è buon giorno!”.>>
   Riprese fiato e aggiunse: <<E non è mica finita qua, senti senti moré... A Giulia bella, dì a ‘sto moretto quanto lo ami er papi tuo... Dijelo, Giulié! Dijelo!>>
  La voce della ragazza era tutto sommato gradevole, ma l'accento aveva un non so che di infantile: e  adesso conoscevo anche il suo nome.
   <<Ti amo da impazzire, Dandy! Dan-dy! Dan-dy!!>>
   <<A Giulia bella, dì a ‘sto moretto chi è 'r mejo scopatore der monno!>>, si portò le mani alla bocca come fossero un megafono: <<Dijelo, Giulié! Dijelo!>>
   <<Ma sei tu, Dandy! Dan-dy! Dan-dy!!>>, accompagnò le esclamazioni accennando dei brevi saltelli a piedi uniti.
   La faccenda cominciava ad arrivarmi chiara. E più la ragazza parlava e più scemava il suo fascino. Era bella da tremare, lo confesso, ma avrei preferito che non parlasse. Ci sono persone che nel silenzio danno il loro meglio, ecco, Giulia era senz’altro una di queste.
   L'energumeno che adesso sapevo chiamarsi Dandy estrasse una carta di credito dal portafogli e la porse alla ragazza.
   <<Tiè bella der Dandy, annàte a fa’ Sciopping, comprateve er negozio, e ridete, ridete! Ve vojo véde rite!>>
   <<WoW, Dandy! Ma prima voglio un grande gigantesco immenso gelato al cioccolato con una montagna di panna!>>
   Giulia gli si avventa al collo, lo stropiccia, lo bacia, dà un bacio sulla guancia anche a me e giubilante corre sui tacchi verso l’amica al centro della piazza. Su una cosa ero d’accordo con quel Dandy, più la guardavo, più mi sentivo sereno. Giulia, in quel momento, era l’immagine suprema della spensieratezza.
   Tornò a sedersi di fianco. <<Hai sentito, moré? Hai capito? Sì da granne voi èsse felice, devi da fa' come me, “paghi e te levi er pensiero”. Senza troppi cazzi. Ce lo sai che ar maschio ce piace èsse piàto p’er culo se se tratta d’orgojo. Pago, e so’ er mejo maschio, er mejo tacco, er più fico, er più forte, er numero uno… So er Dandy!  Hai capito, moré ? 
Aricordate sto nome, er Dandy!>>
   Forse ero troppo giovane per comprendere quell’ottica, forse troppo pulito, forse troppo lontano da quella ricchezza e quel mondo che m’ostentava davanti.
   <<Sì, ho capito. Ma a che serve, se poi è tutto falso, io non la voglio una donna che sta con me solo perché le offro una vita agiata e soldi a iosa! Io voglio una donna che stia con me perché mi desideri e mi apprezzi per quello che so essere.>>
   Mi era salita la rabbia e il tono della voce m'era schizzato senza volerlo. Mi sentivo pungolato su ciò in cui avevo sempre creduto.
   <<A moré, tojeme 'na curiosità, ma a te, che te piace?>>
   Sono sempre stato per le cose semplici, per i dettagli. Quel genere di cose che non costano nulla, ma se mancano, ti fanno sentire come uno dei tanti, come un numero senza peso che fluttua in uno spazio popolato da altrettanti numeri, altrettanto senza peso.
   <<Mi piace chi si ricorda del mio compleanno senza che io glielo abbia rammentato. E che frema, eccitato, dalla sera prima, per essere il primo a mezzanotte a volermi dire: "Auguri! Ti stavo pensando".  Ecco, questo mi piace.>>
   <<Bravo moré, me piaci. Me ricordi i bei tempi de quanno ero 'no stronzo qualunque, stronzo e idealista, de quanno ero come te, de quanno nun capivo 'n cazzo e figuramose le femmine.>>
   Si diede due sonore botte con le mani sulle cosce e si rizzò ancora in piedi.
   <<Dai moré, famo che avemo scherzato, i sogni so sogni, e nun te li vojo rovinà.>>
   Stava per andare via, ma istintivamente gli toccai un braccio per farlo voltare e reagii di getto:  <<Io non voglio pagare una donna perché ella mi voglia bene!>>.
   Scoppiò a ridere, e io non capii. Anzi, a me la cosa sembrava alquanto seria. Importante.
   Mi guardò fisso negli occhi.
   <<E magari la voi pure vergine?>>, mi domandò sghignazzando.
   D'improvviso mi sentii nudo. Mi resi conto d'apparire per quello che ero, un dannato ragazzino romantico che di lì a poco sarebbe diventato un dannato uomo romantico, e idealista, aggiungo oggi. Capace solo di soffrire per un nonnulla. Sognavo di far sentire come l'unica sovrana che avesse mai attraversato la storia quella che sarebbe stata la mia prima vera fidanzata. Avrei gioito, pianto e fatto tutto con lei, e lei con me. Solo, con me. Gli amici più stretti, gli unici coi quali spiccicavo parola a riguardo, se ne stavano alla larga. <<Non sia mai!>>, dicevano. <<Oh, ma che sei matto? Le ragazze vergini portano solo un sacco di problemi!>> Ed era proprio così che dicevano, vi do la mia parola d'onore. E questo mi faceva sentire a poco a poco sempre più diverso. Sempre più lontano. Per me sarebbe stato il giusto premio per essere venuto al mondo senza che l'avessi domandato L'avrei considerato come il segreto che ci avrebbe legato indissolubilmente vita natural durante. Ma il fatto è che i sogni sono una cosa, e la vita è proprio tutta un'altra. La verità è che, col senno del poi, qualcuna sarebbe stata la prima per me, mentre io, non sarei stato il primo per nessuna. Ma questa è tutt'altra storia. Una delle tante. Una delle mie.
   L'uomo si lisciò il mento perplesso e ruppe gli indugi. <<Sì, moré. Er modo ce sarebbe. La voi 'na donna che te dice le stesse cose che dìcheno a me e senza pagà?>>
   <<Certo che la voglio, e sono certo che l'avrò!>>, gli urlai con fermezza.
   <<E allora vai, trova la più bella fica che t’aggrada e… Falla innamorà dé te. Se ce riesci, questo è 'r trucco.>>
   Ah, be’, il discorso filava. Ma non mi sembrava nulla d’eccezionale. Era come aver scoperto l'acqua calda.
   <<L’amore può tutto. Quando sei innamorato e guardi con gli occhi dell’amore è tutto bello.>>
   Di nuovo la sua risata che adesso cominciava a starmi sui nervi. E ancora una volta ne ignoravo i natali.
   <<A moré, è mejo che me ne vado perché sei indifendibile. Vabbè, famo pure che la trovi e la fai innamorà come 'na pazza. Ma er problema te rimane. Perché lei te dirà pure che sei er mejo de qua e sei er mejo déllà, ma er dubbio ce l’avrai sempre. E chi te lo leva quello. Nun saprai mai se te lo stà a dì perché ce crede o perché nun te vole fà soffrì…>>
   Mi rabbuio. Chino il capo e prendo a fissare lo zaino, ma fosse stata qualsiasi altra cosa, sarebbe stato lo stesso. Il Dandy non m’era affatto simpatico, ma non aveva del tutto torto. Una pioggia di pensieri mi si dimenavano nella testa, e francamente, nessuno di essi mi piaceva.
   La Standa stava aprendo, ma a me era passata la voglia. Anche il sole era sparito. Avrei solo voluto essere già a casa, a letto e con le cuffie a spararmi "The Unforgiven" dritto nelle orecchie per non pensare a nulla, Dandy in primis.
   Da lontano sento per la terza volta l’odiosa risata schiattata. Alzo il capo, lo cerco e lo vedo mentre accompagna con la mano, una alla volta, il fondo schiena delle fanciulle all’interno della tigre.
   Si dà una regolata al cappello, e mi guarda.
  <<A moré! Stai contento che c’ho er trucco pure pé questo! Voi sapé che devi da fa' dopo che l’hai fatta innamorà pé nun ce avé più er dubbio e pé créde a tutto quello che te dice?>>
   Mi accorsi di guardarlo con insistenza, parevo imbambolato. Poi, un colpo di clacson mi riportò in sentimenti e gli annuii col capo.
   Mi sorbii per la quarta volta quella risata inconsulta da ebete.
   <<Innamorate pure te! Questo devi da fa'. E' questo er trucco, moré! Du' cecàti innamorati!>> 

   Mi fissa, ride e mentre ride mi mostra i denti e il metallo che li teneva assieme. La testa sussultò ora in avanti ora all'indietro, mentre con una mano accompagnava la risata fregandosi la pancia sporgente. Emetteva dei suoni simili a grugniti. 
   Lo guardo, ma sono altrove.
   Quando mi salutò era già al trotto, e di spalle mi disse ululando: <<Ciao moré, er Dandy té salutant! >>
  
   La Bentley s’era già avviata. Prima di scomparire oltre il curvone diede due colpi di clacson. Come un riflesso spontaneo, una mano mi si agitò nell’aria. Non seppi mai se fossero per me. Come del resto non seppi mai più nulla del Dandy.
   Sapevo solo che mi era venuta voglia di gelato. Un gigantesco gelato al cioccolato con una montagna di panna.




M.
(L’uomo dei difetti…)

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