Un pomeriggio, all'improvviso.


Un pomeriggio, così, all'improvviso

Chantal irruppe nella mia vita in un giorno qualunque, durante un appostamento qualunque, in un luogo affatto qualunque.
   Sorvegliavo quell’androne e quelle imposte da tre giorni e quattro notti. Complici l’astinenza dalla nicotina, il rapporto ormai a distanza che avevo instaurato con il letto, la fame o il vento che soffiava la pioggia contro il parabrezza al ritmo di una Breda 37, che commisi l’errore che un buon poliziotto non dovrebbe mai commettere. 
   Lasciai che il più bel pezzo di femmina che avessi mai veduto uscire da un'auto, incrociasse e sostenesse per più di quattro secondi il mio sguardo.
   Quattro luridi secondi in senso assoluto possono significare un bel niente. Si tratta tutto sommato di un lasso temporale trascurabile, di un nonnulla. Ma nella sottile dinamica dell’attrazione trai i sessi, il pacchetto dei quattro secondi segna il limite oltre il quale viaggia la sola perdizione. Dove tutto è possibile. Ma anche dove il paracadute non si apre mai. E allora, fuggi! Scappa, prima che l’uomo tutto d’un pezzo vacilli e la diavolessa con la frusta risalga gli inferi a morderti le chiappe. Perché se non abbassi lo sguardo prima del quarto secondo o non te la dai a gambe levate, amico mio sei bello che fottuto.
   Avevo appena abbassato il finestrino del lato passeggero per squadrare meglio un tizio che la vidi scendere dal coupé Mercedes, sola. La gonna stretta che le sale sulle cosce e il tacco che la slancia diritta verso il paradiso, ma a metà strada, prende a fissare me che già fissavo lei. E riparte il cronometro. Uno, due, tre, quattro… E cazzo!
   Ormai era andata, alle orecchie già gracchiava il nano di Funeral Party che saltellava da una gambetta all'altra coi pollici all'insù: <<Cazzo, amico... Sei fottuto!>>
   Davanti agli occhi della mente ho veduto il parabrezza spaccarsi in due proiezioni indipendenti come al cinematografo. Da un lato c'era il fungo dell'atomica che m'accecava e dell'altro vedevo il tradimento di Dalila, il trancio delle sette trecce, Sansone e tutti i filistei tra le macerie. 
   Io non potevo permettermi di andare via. Allora pregai andasse via lei. E se ne andò. Sgattaiolò di corsa con la giacca sopra la testa lungo il viottolo alberato attiguo al palazzo che tenevo sott'occhio.
   Anche se tutte le prove sono contro di me, vi assicuro che il mio cervello è, ed è sempre stato, localizzato nel cranio. Ma già le mie fantasie avevano preso il la.
   Non ebbi neanche il tempo di patirne la mancanza che me la ritrovai a pochi passi, sul marciapiede, e con un pastore tedesco al guinzaglio che letteralmente la trascinava. Mi passò di fianco, avanti e indietro, più e più volte. Si era cambiata, adesso indossava una camicetta bianca sotto un blazer di tweed. 
   Sapevo di non doverlo fare, ma era più forte di me. Abbassai il finestrino e lo tenni giù, il gomito appena appoggiato sulla guaina della portiera e la radice di liquirizia infilata tra le labbra, salda tra i miei denti.
   Ci guardammo ancora, più volte in pochi istanti.
   Il cane, di razza pura, s’avvicina con le orecchie rizzate come antenne alla mia gomma anteriore sinistra annusando a terra. Ma è solo una finta, soffoca un guaito e schizza fuori dal marciapiede. La donna lo trattiene a fatica mentre l’animale la strattona.
   <<Rasti! Buono!>>, la sento gridare. Una smorfia con la bocca, un gesto di stizza e il guinzaglio finisce nell’altra mano.
   Adesso, mi dà le spalle. Mi ritrovo con un biglietto in prima fila per uno spettacolo al quale avrei voluto assistere a tutte le repliche vita natural durante.
   Rasti allenta la presa e torna scodinzolando dalla dea padrona, che si volta, e mi sorride. Si avvicina di un passo, la dea mi sorride ancora e i passi diventano due. Non piove più, ma scorgo un fulmine che fende il plumbeo oltre il vecchio mattatoio in fondo alla strada.
   Inclino la testa, incurvo le labbra e mi sporgo oltre il finestrino. Qualcosa sta per accadere, lo so, lo sento. Muove la bocca, mi occhieggia timida: è il momento di parlare, ma tentenna. Poi, prende coraggio: <<Mi scusi...>>, quasi balbetta. <<Saprebbe dirmi che ore sono?>>
   Con le labbra, le sorrido anch’io. Con la testa penso: la scusa più stronza!
   Le sorrido ancora, e penso alla diavolessa che prima o poi verrà a mordermi le chiappe.


M.
(L'uomo dei difetti...)

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